Il crollo, il boato, il silenzio e poi le grida. Le grida di una periferia abbandonata ed utilizzata solamente come passerella per i soliti volti noti della politica nazionale che strumentalizzano le condizioni di disagio sociale, strutturale e culturale nella quale loro stessi hanno abbandonato le periferie. I fatti della Vela Celeste che hanno visto nella sera di lunedì il crollo di un ballatoio portando così alla morte 2 persone, 13 feriti (alcuni molto gravi nda.) e circa 800 fra persone sfollate oppure allontanate in via precauzionale in vista di nuovi crolli, ci portano ad un’analisi precisa del concetto di fuori e dentro.
Al netto della specificità delle cosiddette Vele, al centro del dibattito regionale campano da decenni, con progetti su progetti mai del tutto decollati oppure effettivamente risolutori di una condizione cronica d’abbandono, demarcano quello che intendiamo con il concetto del “fuori”.
Fuori da ogni tentativo di dare un nuovo slancio ad un territorio in decadenza strutturale a tal punto da uccidere. Dove i servizi alla persona vacillano o spesso mancano del tutto, dove chi è “fuori” abita in condizioni disumane. E allora, a rotazione, il dentro passa in rassegna questo spettacolo macabro delle periferie ripulendo al suo passaggio qualche parco e qualche oratorio o spazio sociale giusto per il proprio comizio elettorale, il tutto a favor di telecamere e quotidiani.
La spettacolarizzazione del fuori per la pietas del dentro, che si mischia nel dibattito nazionale, anche con forme di anti-meridionalismo, razzismo e classismo ci fa incazzare perché, oltre alle già citate forme di violenza narrativa e verbale, Scampia è tutti i giorni, tutte le ore. La periferia è tutti i giorni, tutte le ore. E mentre il “dentro” vive nei suoi giardini di plastica e nel concetto del decoro difeso da forme repressive come il DASPO urbano (per dirne una nda.) in periferia si muore lentamente.
Ci chiediamo come ancora la politica nazionale borghese e dei palazzi lussuosi, possa pretendere di rispondere efficacemente ad una emorragia sociale come questa.
Ma sapete che c’è anche del buono, del bello nel “fuori” a volte? La solidarietà, la comunità, i collettivi che si stringono per tenere a bada un vento gelido chiamato “abbandono” che soffia forte in un mare agitato da un ascensore sociale che non vuole salire ma se mai scendere sempre di più disgregando e disassemblando un precario equilibrismo di sopravvivenza.
La risposta della città c’è stata. Camion di vivere, di vestiti, di ventilatori per rinfrescare questo clima torrido ed ammalato per colpa del capitalismo, le medicine per chi ne ha bisogno e poi la rabbia di chi, nell’urna elettorale, diede delega di rappresentanza ad una politica da talk-show che nel “dentro” vuole stare perché nel “fuori” non è capace di interpretare l’oggi per il domani.
Ora è il tempo dell’emergenza, della sopravvivenza. Domani dovrà essere il tempo di lottare anche nelle urne elettorali per far avanzare quel fuori che porta con sé tante storie, tantissime esperienze di mutuo soccorso, di autogestione, di cultura ed aggregazione dal basso.
Per riprenderci lo spazio politico che ci spetta per gridare fortissimo che la periferia è tutti i giorni.